C’è sempre un’occasione per parlare di Paolo Conte: anche se si è scritto di tutto sull’artista astigiano, il traguardo dei suoi ottant’anni merita una breve riflessione
Antoni Gaudì affermava che “originalità è tornare alle origini” e Conte incarna perfettamente tale definizione per il suo essere sempre originale nel corso della sua lunga carriera, senza mai tralasciare le sue radici e le sue radici musicali.
Il maestro, che ad ottobre pubblicato il suo nuovo album “Amazing Game“, è un monumento vivente, parte di quella schiera di artisti senza tempo, con la fortuna di essere suoi contemporanei. È infatti difficile collocarlo in un’epoca ben precisa: la sua musica risente di numerose influenze territoriali che nel tempo hanno attinto dall’autenticità della provincia per proiettarsi nel resto del mondo; i testi sono il frutto di una costante ricerca lessicale tipicamente contiana, capace di creare sempre immagini in movimento.
Lo stesso Conte ha sempre affermato il senso cinematografico delle sue canzoni, con parole che sembrano continuamente rinnovarsi ad ogni ascolto nell’universo abitato da “cuochi ambulanti che soffriggono musica”, magari in un “tinello marron”. E così possiamo ritrovarci all’interno di un mitico bar di provincia, il Mocambo, nella pioggia parigina immersi in un dipinto tipicamente francese oppure in Sud America tra Messico e nuvole avvolti dai colori sgargianti tipici del Conte pittore.
La letteratura è sempre ben presente nei suoi testi con i rimandi più o meno celati da Heminguay a Gozzano; interessanti poi sono i “viaggi e altri viaggi” direbbe Antonio Tabucchi, con partenza da Genova descritta con un pianoforte al posto del pennello per approdare alle fantasie salgariane, passando per le esplorazioni di Caboto o Vasco de Gama.
Come non accennare al mondo dell’enigmistica che raggiunge, con la sua “Rebus“, nella brevità dell’esecuzione vette altissime. La sintesi contiana, salvo rari casi, ha la capacità di creare capolavori in pochissimi minuti. Conte è essenziale, racconta, cose lontane o a due passi dal suo Piemonte, con leggerezza Calviniana quel “mondo adulto dove si sbaglia da professionisti”.
Poi c’è il jazz in tutte le sue forme e qui Conte sfodera tutto il suo sapere sedimentato nel tempo e ci dona da sempre pezzi che sanno di America, di Africa e di eterno. Tra diavoli rossi, macachi e cassiere che masticano delle misteriose caramelle alascane l’universo contiano è popolato anche di verdi milonghe e di rumbe che sono soltanto allegrie del tango.
Paolo Conte anche a ottant’anni riempie i migliori teatri con concerti che lo portano spesso lontano dall’Italia accolto tra applausi e consensi di un pubblico che non smette mai di seguirlo e ascoltarlo. Lui in scena non parla quasi mai; ringrazia solo i presenti con un gesto semplice: mano sul cuore e testa china in segno di gratitudine per tale fedeltà.
A parlare è sempre la sua musica d’autore nel suo tempo fatto di attimi e settimane enigmistiche, sotto le stelle del jazz. Buon compleanno, maestro!