Un omaggio alla musica degli Spandau Ballet, tutto questo e non solo: un tuffo nel mare primordiale dell’elettropop, per ballare oggi come trent’anni fa. Per tutte le generazioni, anche per le più giovani, in cui vive forte ancora il mito degli anni ottanta
Sembrava di essere tornati indietro nel tempo di circa trent’anni. Quanti ne sono passati, da quando i Duran Duran e gli Spandau Ballet, si contendevano i cuori delle ragazzine, suscitando l’invidia di qualche maschietto, che si chiedeva mai cos’avessero di tanto speciale Simon Le Bon da una parte o Tony Hadley dall’altra. Chi capiva di musica, sin da quei tempi, sapeva che quei due gruppi non erano e non sarebbero stati nemmeno negli anni a divenire un fenomeno momentaneo, neanche un prodotto commerciale come ce ne sono molti ora. Era grande musica, di quella che entra dentro e non ti esce più.
Molti anni dopo, la loro musica e quella in generale degli anni ottanta, è stata rivalutata come si meritava. Perché forse quello è stato l’ultimo vero decennio.
La cosa bella, della serata che ha visto la presenza di Steve Norman, sassofonista storico degli Spandau Ballet, è stata quella di intuire che la gente ha ancora tanta voglia di ascoltare quelle melodie.
In effetti, l’artista non si è limitato ad autocelebrarsi. Dando sfogo alla sua creatività e al suo essere polistrumentista, prima che sassofonista, si è scatenato al sax e alle percussioni, coadiuvato alla consolle dal dj Claudio Ciccone, in un medley dedicato alle sonorità electropop che proprio dagli anni ottanta traggono le loro origini. Pezzi degli Spandau sì, anzi degli Spands, come amano chiamarli i fan immarcescibili ed irriducibili, che ancora oggi ci sono, e sono tanti.
Un brodo primordiale, da dove prendeva vita e forma la musica dance degli anni a venire, seguendo il solco già tracciato da band indimenticabili come A-ha, The Human League, Ultravox, Dead Or Alive, New Order e naturalmente i Depeche Mode. Quindi la riproposizione di brani storici degli Spandau Ballet come “Gold“, “To cut a long story short” e “The Freeze“, eseguiti durante la seconda parte del concerto, quando Steve si è concesso al suo pubblico, scendendo in platea e suonando in mezzo a decine di fan entusiasti, che non vedevano l’ora di postarsi un “selfie” accanto al loro mito di sempre, culminando in una eccellente rilettura di “Running up that hill” della leggendaria Kate Bush.
Steve Norman si è presentato in grande spolvero, carico e desideroso di fare le cose in grande, ma si sa che per lui il tempo è stato più generoso, essendo tra tutti, quello che sta invecchiando meglio, anzi pare non invecchi proprio. Forse il più divertito, al Futurarte era proprio lui: si è mostrato disponibile sin dall’inizio ed ha saputo cogliere l’atmosfera del momento in ogni sua sfaccettatura, dando vita a una fantastica esibizione nel contesto di una serata perfetta.
Steve e Claudio Ciccone, che già vantano precedenti esperienze, si dimostrano ancora molto affiatati, tra di loro si nota un’amicizia oramai duratura. Per Norman, si è trattato di un piacevolissimo ritorno a Roma, a distanza di un anno dall’ultima volta. Lo spettacolo è stato anche sentire un sax suonato in modo inconfondibile, riconoscibile tra mille, sentire la carica di percussioni che hanno segnato per sempre il sound degli Spandau. Lo spettacolo è stato anche vedere una star da milioni di copie mondiali intrattenersi a firmare autografi, fare foto e ricevere regali dai fan per oltre due ore dopo la performance.
Sì, tutto vero. “This much is true”.
Galleria fotografica a cura di Daniele Crescenzi